DANIELE ARMIERI

Racchiudere un mondo di emozione, sotto un vestito fatto di tre colori e da lì iniziare a segnare con pennello un ricchissimo libro di personali evoluzioni del pensiero che da vissuto intimo viene poi riversato alla coscienza dell’umanità, prende forma nel giuoco linguistico artistico di Daniele Armieri. I colori da lui scelti, per delineare la sua linea pittorica sono tre: rosso-bianco-nero, l’artista talvolta si concede di aggiungere marroni solo per aumentare quelle ombre che renderanno ancor più incisiva la percezione di profondità insita nel fraseggio semantico delle immagini proposte e ne darà più plasticità. Il ciclo delle opere di Daniele segue un unico filo conduttore, e viene sviluppato e rivisto ormai da molti anni, una sorta di figlio, che necessita sempre di essere sostenuto e accompagnato nel suo cammino, arricchendo però l’abbecedario artistico sempre con nuove tematiche da sviluppare e approfondire. Il suo racconto si rivolge a realtà disagiate, al fermare attimi della tradizione, il folclore della sua terra, lo scorrere del tempo, e tre elementi sono la forza fondante di tuta la sua opera: mani, occhi e muri. Daniele nel suo percorso di formazione è sempre stato legato al fumetto, alla fotografia in bianco e nero e alla street art, incrementando sempre il suo dialogo con l’arte con una profonda osservazione di ciò che lo circonda, interiorizzando così le esperienze del quotidiano filtrate da intime emozioni provate. È sempre stato affascinato dalle popolazioni tribali e a loro dedica in parte le sue creazioni, in particolare a quel mondo di carni e umanità intrappolati dentro a corpi nati nel posto sbagliato. Il suo racconto si accresce nell’interesse provato verso le figure di donne, uomini, bambini e anziani, alle loro personali speranze e intimi pensieri. Da che mondo e mondo il fenomeno dell’immigrazione è un fatto sempre vissuto e rivissuto, sia in grande scala che in piccola scala, e Daniele vuole mettere alla luce che anche il semplice trasferimento all’interno del proprio paese, per motivazioni varie, porta comunque l’individuo a staccarsi dalle proprie radici, come d’altronde è successo anche a lui. Attraverso l’arte ricorda le sue radici e proprio il ricordo lo porta a ritrarre mezzi busti di anziana che con una sacralità lenta e precisa si acconcia i capelli, come la tradizione vuole e inevitabilmente quella figura lo riaggancia al ricordo della nonna. Vengono ritratti volti, visi, muri, ci sono tanti elementi nei quadri dell’artista che meritano di essere osservati nei loro particolari e le loro intrinseche simbologie, ma i nostri occhi si soffermeranno sempre e verranno inevitabilmente bloccati nella loro corsa da tutti gli occhi che sono sovente stati ritratti e fatalmente ci obbligheranno a spingerci più in là, oltre quello sguardo, immancabilmente saremo portati ad ascoltare le parole inespresse dalla voce, ma sarà quello sguardo d’intesa, che si svilupperà naturalmente tra il fruitore e il soggetto ritratto che aprirà il dialogo silenzioso e che squasserà il silenzio. In quegli sguardi c’è racchiusa tutta un’energia della comunicazione, viene adottato come linguaggio il cosiddetto sistema cinesico che comprende tutti gli atti comunicativi espressi dai movimenti del corpo, ma in primo luogo vanno considerati i movimenti oculari: il contatto visivo tra due persone, poi a questo si aggiunge la mimica facciale, che nel quadro viene comunque immortalata in un dato momento, fissato eternamente nello sviluppo momentaneo di un determinato pensiero, e l’artista, da grande osservatore, sa perfettamente quali espressioni riprodurre per riuscire a creare quell’immediata empatia tra fruitore e figura ritratta. Ma quegli occhi cosa vogliono comunicare? Sono occhi umiliati e tristi o sono occhi fieri e intrisi di umana dignità? Soprattutto negli adulti raffigurati posso dire e sostenere che sono occhi fieri e ricchi di umana dignità certo, si proiettano sognanti verso il loro futuro incerto, certo il loro spalancarsi ingloba in essi pensieri non solo rivolti al personale destino, ma al destino della propria famiglia e in particolar modo rivolto al futuro dei propri figli. In fin dei conti in queste persone raffigurate si nota quella matura consapevolezza che la vera casa la fa la gente che ti circonda, non il mattone, anche se quello dà un altro tipo di certezza, ma sono gli affetti di sangue e l’accoglienza delle persone che ti ospitano nel luogo in cui arrivi che fanno radice e certezza e l’amore nei rapporti umani impregnato di compassione e generosità del gesto.

L’artista ci pone così davanti alla realtà dei fatti, alle speranze nutrite intimamente, agli occhi di quei bambini in cerca di punti di riferimento e al loro guardare oltre quello sguardo che sarà in realtà il sogno di un futuro nella speranza di integrarsi e di poter aver pure loro un posto riservato in questa vita che gli darà il diritto allo studio e a tutti i beni primari che ogni essere umano ne ha diritto. I motivi per cui si scappa dalla propria terra li conosciamo tutti, guerra, acqua, mancanza di cibo, impossibilità a curarsi e a vivere una vita dignitosa, l’artista ci fa vedere spezzoni di vita di questa povera gente e noi non possiamo rimanerne indifferenti.

Le mani, con le loro callosità e rugosità, tante volte leggermente sproporzionate e caricaturate rispetto alla totalità della figura, diventano un altro punto d’accento nei messaggi di Daniele; in queste mani, attraverso una tecnica pittorica che si basa sull’acquerellare gli acrilici, farsi forza della sostanza del supporto con la sua trama e ordito della tela e l’uso dell’inchiostro di china, come si usa nel fumetto, c’è rappresentato l’inevitabile scandirsi del tempo, l’usura data dal lavoro quotidiano incessante, ma in quelle mani che cosa si racconta oltre a questo? L’amore, con le mani si accarezza, si ama, ci si prende cura, si soccorre, quanti gesti celati sotto quell’elemento del corpo, quante parole espresse con il gesto, quanti sentimenti, quanta comunicazione non verbale viene narrata, e come gli occhi, con le mani si realizza ciò che si immagina con la mente e l’artista nel trasmetterci questo intento c’è riuscito, grazie anche al colore che fa trasparire lo scorrere del sangue dando vita e corposità alle figure.

L’ultimo elemento fondamentale dell’opera di Daniele è il muro che come sfondo diviene protezione rispetto alle figure rappresentate, in quanto le accoglie, ma quelle crepe sempre presenti si prestano e ci invitano a guardare oltre, e qui la simbologia si fa forte, in quanto l’artista ci invita a guardare oltre a quelle fenditure e il messaggio viene vissuto come metafora e inevitabilmente ci porta a non fermarci e a bloccarci davanti alle apparenze. Non bisogna far finta di guardare, bisogna imparare a vedere e se anche ci da fastidio accettare certe situazioni bisogna affrontarle e tutti insieme trovare delle soluzioni.

Nella poetica artistica di Daniele, non c’è la ricerca del bello, ma del vero, egli sfida e attiva, attraverso un silente fraseggio, la nostra coscienza e ci obbliga ad aprire gli occhi verso ciò che è e che non cambia, anche se davanti alla realtà dei fatti molte volte ci voltiamo indietro indifferenti. Per togliere quella spina ci si deve unire e soprattutto bisogna essere consapevoli che la dignità della vita è un diritto dovuto a tutto il genere umano, indipendentemente dal luogo da cui si proviene, dunque l’artista persegue una strada microcosmica e di intima riflessione espandendosi a un valore macrocosmico del messaggio che investirà il sentire dell’intera umanità. Ovviamente, ci si dovrà comunque e sempre scontrare con la sensibilità personale di ognuno di noi, ma già il solo guardare rivolto a quei quadri lascerà inevitabilmente traccia dentro di noi e ognuno dopo aver assorbito l’immagine nel proprio Io, farà le individuali valutazioni e deciderà di stare al di qua di quel muro o sceglierà di guardare oltre quello sguardo.

 

Raffaella Ferrari

 

 


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